La Primavera Araba ha profondamente segnato il panorama politico del Medio Oriente. Spentosi rapidamente l’entusiasmo per l’ondata democratica, è opportuno domandarsi se e come i cambiamenti occorsi fino ad oggi abbiano influenzato il delicato equilibrio geopolitico della regione. La configurazione pre-rivolta vedeva in Israele, Egitto ed Arabia Saudita i principali alleati della superpotenza americana, con l’asse Iran-Siria a capo dello schieramento “anti-egemonico”. Poco più di sei mesi dopo la “Rivoluzione dei Gelsomini” in Tunisia quest’articolo traccerà un bilancio (parziale) degli effetti delle rivolte nel mondo arabo sugli equilibri geopolitici del Medio Oriente.
La storia delle rivolte in Medio Oriente (o Primavera Araba, se preferite) è nota. Il 14 gennaio 2011, a seguito di proteste a Tunisi e in altre città del paese, l’esercito tunisino sancisce la fine politica di Zine El-Abidine Ben Ali, presidente in carica fin dal lontano 1987. Il collega egiziano di Ben Ali, Hosni Mubarak (in carica dall’ottobre 1981) è costretto a dimettersi e ritirarsi a Sharm el-Sheikh circa un mese dopo. Se la caduta di due dei regimi di più lungo corso nella regione non fosse una sorpresa sufficiente, le proteste “contagiano” rapidamente diversi paesi nella regione, portando ad una guerra civile ed a un intervento militare NATO in Libia, a scontri e brutali repressioni in Siria, Bahrain e Yemen (dove il presidente viene ferito da una bomba e deve rifugiarsi per cure mediche nella vicina Arabia Saudita) ed a instabilità diffusa nella regione. Gli esperti sono divisi sulle cause delle rivolte (socio-economiche o politiche?) e sulla natura delle opposizioni ai regimi (“democratiche” o “islamiche?”); tuttavia l’instabilità dei paesi colpiti dalle rivolte-sia quelli dove gli insorti riescono ad ottenere un cambio di regime, sia quelli dove i governanti riescono (al momento) a resistere alla pressione- hanno finora impedito di considerare gli effetti della rivolta per l’equilibrio geopolitico della regione. Quest’articolo si propone di analizzare i cambiamenti conseguenti ai recenti sviluppi-tenendo sempre a mente come la situazione attuale sia soggetta a repentini mutamenti. Per tracciare un bilancio critico occorre partire dallo scacchiere geopolitico della regione prima dei recenti sconvolgimenti.
L’equilibrio pre-rivolte
Quest’analisi si occuperà principalmente del Medio Oriente tradizionale (dall’Egitto ad Ovest all’Iran ad Est) e non del “Grande Medio Oriente” ed in particolare del Maghreb. Quest’ultima è infatti la sub-regione del MENA (Middle East and North Africa) che gode di dinamiche politiche proprie1 e di una certa autonomia rispetto ai temi regionali che caratterizzano il “Medio Oriente”. Un rapido sguardo all’equilibrio geopolitico pre-rivolte mostra la presenza di un blocco dominante costituito dagli Stati Uniti ed Israele dagli alleati arabi della superpotenza, l’Arabia Saudita e l’Egitto. Attorno all’asse Damasco – Teheran si raggruppano invece le principali forze anti-status quo, cui fanno riferimento Hamas ed Hezbollah. Questo equilibrio è figlio del cruciale biennio 78-79, caratterizzato dalla defezione dell’Egitto dal campo arabo e filo-sovietico con gli accordi di Camp David e dalla rivoluzione in Iran. La rete di alleanze costruita nella regione dagli statunitensi durante la guerra fredda sembrava uscire rafforzata dal passaggio dall’epoca bipolare a quella unipolare. La variabile geopolitica più rilevante sembra essere il progressivo re-inserimento della Turchia nell’arena mediorientale- accentuata dall’avvento di Erdogan dell’Akp nel 2002 ma già individuabile negli anni 90- ed al progressivo distacco di Ankara da Israele fino allo stato di aperta ostilità che caratterizza le relazioni dal 2009 in poi2.
La prima fase:l’inizio della rivolta
Le proteste in Tunisia e la caduta di Ben Ali furono accolte con stupore e crescente preoccupazione in molte capitali mediorientali: il rischio di “contagio” nella regione appare immediato, con la Giordania di Re Abdallah e l’Egitto di Mubarak travolti da un’ondata di proteste. Cairo e Amman rappresentano due degli alleati più fedeli degli Stati Uniti nella regione, nonché due paesi confinanti con Israele e ambedue in buoni rapporti con Gerusalemme (la Giordania firmò la pace con Israele nel 1994, e da quel momento i rapporti videro un progressivo e costante miglioramento). L’11 Febbraio Hosni Mubarak, “il Faraone” al potere dall’uccisione di Sadat nel 1981 è costretto a lasciare la presidenza al generale Tantawi a seguito di oltre due settimane di proteste. In questa fase l’equilibrio geopolitico sembra spostarsi chiaramente a favore dell’asse anti-americano: la rivolta d’Egitto minaccia di “spostare” il gigante arabo, considerato saldamente nel campo filo-occidentale, verso una posizione pre-79. Il 14 Febbraio, tre giorni dopo la caduta di Mubarak, la protesta monta in Bahrain. Questo piccolo arcipelago d’isole ha una discreta importanza da un punto di vista geopolitico ma una rilevanza immensa dal punto di vista simbolico. Ambedue gli aspetti sono da inquadrare nell’ambito della rivalità tra le due potenze del Golfo, la monarchia wahabita Saudita e la repubblica Islamica d’Iran. La popolazione del Bahrain è in maggioranza (70% circa) sciita, mentre la famiglia reale è sunnita e storicamente supportata dall’Arabia Saudita. Le proteste in Bahrain vengono immediatamente inquadrate nell’ambito della rivalità tra le due potenze del Golfo – un tentativo della Repubblica Islamica di far leva sulla maggioranza sciita della popolazione per sottrarre il Bahrain alla sfera d’influenza saudita. Ad aggravare la minaccia per Riyad, la minoranza sciita presente nella regione orientale dell’Arabia Saudita sembra venire coinvolta nelle proteste. Tra fine febbraio ed inizio marzo, con Mubarak disarcionato in Egitto e l’Arabia Saudita in evidente difficoltà, le rivolte arabe sembrano poter spostare l’equilibrio geopolitico a favore di Iran e Siria. La rete di alleanze costruita dagli americani sembra vacillare dalle fondamenta- Cairo e Riyad sono i due più preziosi alleati dell’occidente nel mondo arabo.
Seconda fase: tra Golfo ed Egitto
La metà di Marzo segna uno spartiacque importante per ciò che riguarda le conseguenze delle rivolte arabe sull’equilibrio geopolitico della regione. Tre sono i cambiamenti principali:
Tra l’8 e l’11 marzo un efficace dispiegamento di forze nelle provincie orientali ed a Riyad permette alle autorità saudite di fermare le crescenti proteste nel regno. Il 14 marzo l’Arabia Saudita, dopo aver schiacciato la rivolta interna, invia un contingente di truppe in Bahrain a supporto della famiglia reale. Con l’appoggio dei sauditi le autorità del regno riescono a reprimere le proteste dell’opposizione sciita-lo sgombero di Piazza della Perla il 18 marzo sancisce una vittoria decisiva per il governo. Lo stesso giorno re Abdullah vara un piano multi-milionario allo scopo di placare lo scontento tra i suoi sudditi. Washington e le altre capitali occidentali possono tirare un primo sospiro di sollievo: re Abdullah è riuscito (almeno per il momento) a riguadagnare controllo nella regione del Golfo (con l’eccezione del periferico Yemen). Uno degli assi fondamentali della politica americana nella regione è-almeno per il momento-salvo.
Buone notizie giungono per Israele e gli Stati Uniti dall’altro fronte caldo della prima fase, quello egiziano. Il filo-occidentale generale Tantawi ed il Consiglio supremo delle forze armate, organo dell’esercito che sta gestendo questa fase di opposizione sono adesso saldamente in controllo della situazione e sembrano in grado di pilotare il paese verso una transizione se non tranquilla quanto meno guidata. Il rinnovato ruolo dell’esercito sembra anche una garanzia verso una certa continuità politica ed un argine verso il crescente ruolo degli islamisti-in particolare la Fratellanza Musulmana- colti inizialmente di sorpresa dalle rivolte ma capaci in un secondo momento di riorganizzarsi ed aspirare a giocare un ruolo importante nel paese. Il 21 marzo la stragrande maggioranza degli egiziani che si recano alle urne conferma le modifiche costituzionali che permetteranno al paese di votare nei successivi sei mesi. La partita in Egitto è dunque ancora in bilico.
Marzo vede l’inizio delle proteste in Siria. La scintilla scocca nella città meridionale di Deraa, dove le forze di sicurezza del regime aprono fuoco durante il funerale di un manifestante ucciso pochi giorni prima in una delle prime proteste nel paese3. Nelle settimane seguenti la rivolta “contagia” Latakia, Homs ed altre città del paese. Le ripercussioni della rivolta in Siria sul piano geopolitico sono evidenti: il regime degli Al-Asad rappresenta lo strenuo difensore della causa araba che ha retto-in alcune fasi anche da solo- il peso dell’opposizione all’egemonia americana ed israeliana. Se un indebolimento di Damasco potrebbe essere visto in chiave positiva da americani e israeliani, il caos in cui il paese rischia di precipitare in caso i manifestanti riescano a liberarsi del presidente Al-Asad preoccupa le capitali occidentali e ancor di più Gerusalemme4.
Questa seconda fase dimostra come i regimi pro-occidentali non siano gli unici ad essere interessati dalle proteste. Le crescenti difficoltà del regime di Bashar Al-Asad rappresentano una minaccia per gli oppositori di Stati Uniti e Israele nella regione, in particolare per l’Iran. Contemporaneamente gli accadimenti nel Golfo confermano come il potere economico dell’Arabia Saudita rappresenti un argine contro le proteste nella regione e gli eventuali tentativi iraniani di espandere la propria influenza nella regione. Nell’Egitto rivoluzionario i “Generali” sembrano avere assunto il controllo della situazione garantendo così una certa continuità alla politica estera del paese. La “seconda ondata” di rivolte segna un moderato miglioramento dell’equilibrio geopolitico a favore delle forze filo-occidentali, impegnate dal 19 marzo in una complicata campagna aerea in Libia.
Terza fase: la lunga impasse.
La fase che va da Aprile a Luglio è caratterizzata dal progressivo deterioramento della situazione in Siria, dove una spirale di proteste e feroce repressione governativa costa la vita ad oltre 1500 persone. Il presidente Bashar Al-Asad prova a più riprese a lanciare un “dialogo nazionale”, tentativo vano di fronte alla brutalità con cui ogni forma di dissenso viene affrontata. Nella seconda metà di Maggio è oramai divenuto evidente come il regime stia lottando per la sua sopravvivenza. Il dato fondamentale di questa fase è tuttavia il repentino peggioramento delle relazioni con la Turchia, dovuto alla condanna del governo di Ankara verso quello siriano e dalla crisi dei profughi siriani a cavallo tra giugno e luglio. L’abbandono dell’alleato siriano da parte dell’ambizioso governo di Ankara5 rappresenta una significativa svolta per gli equilibri della regione.
Nel Golfo, le forze conservatrici e filo-occidentali sembrano avere riguadagnato saldamente il controllo mentre l’Iran sperimenta una certa instabilità interna dovuta ai turbolenti rapporti tra “i radicali” vicini al presidente Ahmadinejad e l’Ayatollah Khamenei6. In Egitto la transizione verso elezioni presidenziali e parlamentari sembra procedere senza grossi intoppi. Il governo provvisorio tiene sotto controllo le proteste che ciclicamente interessano soprattutto Il Cairo.
Il bilancio geopolitico
Un bilancio delle conseguenze delle rivolte sull’equilibrio geopolitico della regione sarà necessariamente provvisorio ed impreciso. La situazione è incerta in evoluzione in alcuni paesi chiave (Egitto e Siria). E’ tuttavia possibile già trarre delle conclusioni.
- Qualunque sia l’esito della transizione democratica in Egitto, è lecito aspettarsi dei cambiamenti nella politica estera del paese dei Faraoni. E’ infatti plausibile che un governo democraticamente eletto, anche se“sorvegliato” dall’esercito, non possa mantenere lo stesso allineamento filo-occidentale e filo-israeliano tenuto dall’Egitto dal 1978 in poi. L’opinione pubblica in buona parte contraria a questa scelta mal digerirebbe una politica estera à-la-Mubarak. Se la presenza dell’esercito è garanzia di una certa continuità, è naturale aspettarsi (quanto meno nel medio termine) un Egitto capace di giocare un ruolo più autonomo e propositivo nella regione. In particolare, è possibile attendersi un graduale allontanamento dagli Usa e Israele ma non una ridiscussione della pace di Camp David – non in questa fase.
- Le difficoltà economiche in cui Il Cairo si trova fanno presagire la necessità di coltivare e se possibile migliorare i rapporti con l’Arabia Saudita ed i paesi del Golfo. L’Arabia Saudita potrebbe dunque fungere da tramite tra la superpotenza americana ed il “gigante arabo” risvegliatosi. Riyad appare come uno dei vincitori delle rivolte arabe fino a questo momento- in ragione del fatto che i Sauditi siano riusciti a contenere i danni in una situazione oggettivamente complicata grazie soprattutto alle immense risorse finanziarie. L’Arabia Saudita vede con la Primavera Araba il suo ruolo crescere ulteriormente-a patto che i sauditi siano effettivamente riusciti a spegnere i focolai di protesta interna. La maggiore solidità delle monarchie conservatrici e filo-occidentali di fronte alle rivolte potrebbe rappresentare un vantaggio per Riyad e i suoi alleati nel confronto con il rivale del Golfo- l’Iran.
- L’indebolimento del regime di Bashar Al-Asad in Siria, che lotta in questi giorni per la sua sopravvivenza, rappresenta di per se uno sconvolgimento degli equilibri geopolitici della regione. Fin dal ‘79 Damasco e Teheran hanno rappresentato l’opposizione all’egemonia israelo-americana nella regione, la Siria grazie alla sua centralità nella regione ed alla “coerenza” della sua politica di opposizione ad Israele rappresenta il fulcro di un’alleanza che comprende Hamas ed Hezbollah. Il supporto incondizionato offerto da Teheran all’alleato siriano dimostra l’importanza di Damasco nell’equilibrio geopolitico della regione ed in particolare il suo valore come alleato dell’Iran.
- A seguito della repressione in Siria, le relazioni tra Damasco ed Ankara sono rapidamente peggiorate fino al punto di far considerare ad alcuni analisti la possibilità di un intervento militare turco nella regione di confine. Se questa eventualità sembra (al momento) assai improbabile, l’allontanamento di Ankara da Damasco dopo un decennio di sorprendenti miglioramenti nelle relazioni tra i due paesi rappresenta un accadimento fondamentale- capace in prospettiva di mutare sostanzialmente gli equilibri nella regione.
In conclusione, la primavera araba ha creato un Medio Oriente “a geometria variabile”, una regione del Golfo che ha visto un inasprimento della rivalità tra Iran e Arabia Saudita con Riyad capace di respingere “l’attacco” di Teheran in Bahrain. Nel Levante l’instabilità della Siria rischia di coinvolgere l’intera regione, mentre una soluzione della crisi a Damasco appare al momento lontana. Nel frattempo due dei giganti della regione, Turchia e Egitto, sono in una fase di ridefinizione dei propri interessi strategici e della propria politica di alleanze (seppure per ragioni profondamente differenti) e possono ambedue ambire, nonostante i rispettivi problemi domestici, ad un ruolo di leadership nella regione.
* Francesco Belcastro è dottorando in Relazioni internazionali presso la University of St. Andrews (Scozia).
1 Buzan and Waever, “Regions and powers: the structure of international security “, Cambridge University Press, 2003
2 Hasan Kosebalaban “The crisis in Israeli Turkish relations. What is its strategic significance?” Middle East policy, Vol. XVII no.3
3 http://www.guardian.co.uk/world/2011/mar/19/syria-police-seal-off-daraa-after-five-protesters-killed
4 L’iniziale riluttanza delle autorità Israeliane ad esprimersi sulla rivolta in Siria può essere spiegata anche con una certa preoccupazione verso la prospettiva di una caduta di Al-Asad.
5 Sulla “nuova politica turca” vedi Tiberio Graziani, “Mediterraneo ed Asia Centrale:le cerniere dell’ Eurasia”, Eurasia, 1/2011
6 http://www.guardian.co.uk/world/2011/jun/23/iran-ahmadinejad-ally-corruption-arrest